Saverio FERRARI
38 anni fa FAUSTO e IAIO
(“Il Manifesto”, 17 marzo 2016)
Le vicende legate al duplice assassinio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci (Fausto e Iaio), avvenuto la sera del 18 marzo 1978 in via Mancinelli a Milano, presenta ancor oggi, a trentotto anni dai fatti, più di un dato irrisolto anche dal punto di vista giudiziario. I nomi dei tre presunti killer, ovvero Massimo Carminati, Mario Corsi e Claudio Bracci, furono più volte fatti da diversi esponenti dell’estrema destra romana legati al terrorismo nero, già nel corso degli anni Ottanta in più interrogatori resi ai magistrati. Li accusò apertamente nel 1982 Paolo Bianchi, uno dei massimi esponenti di «Ordine nuovo», sostenendo di aver ricevuto una confidenza dallo stesso Corsi circa la sua partecipazione al delitto, spostandosi da Roma a Milano «trovando poi altre persone sul posto».
Altrettanto fece nel 1988 Angelo Izzo, uno dei tre fascisti protagonisti del massacro del Circeo del 30 settembre 1975 (in cui fu stuprata e uccisa la diciassettenne Rosaria Lopez e seviziata Donatella Colsanti), che a sua volta dichiarò che fu lo stesso Corsi a confidarglielo nel settembre-ottobre del 1980. Analoghe dichiarazioni, sulla responsabilità dei tre e in particolare di Corsi, furono rese nel 1982 e nel 1991 da Walter Sordi (ex «Nuclei armati rivoluzionari»), nel 1990 da Cristiano Fioravanti (sempre dei Nar), nel 1988 da Stefano Soderini (prima in «Terza posizione» poi nei Nar), relativamente al coinvolgimento di Corsi, e da Patrizio Trochei (ex Fuan) sul fatto che Corsi «si era vantato in giro di aver partecipato a questa azione». Paolo Aleandri (del gruppo terroristico di «Costruiamo l’azione»), dal canto suo, nel 1982, affermò che «sull’uccisione di Fausto e Iaio in tutti gli ambienti della destra romana si era sicuri del fatto che fosse opera della destra». Lo confermò Sergio Calore, anche lui di Costruiamo l’azione. Almeno in sei, dunque, fecero dei nomi riferendoli ai Nar della «Banda Prati». Angelo Izzo affermò addirittura che la denominazione di «Brigata Combattente Franco Anselmi» fosse una delle sigle dietro la quale la stessa banda si coprisse. Come vedremo, un dato di assoluta rilevanza.
L’aguato in trench
L’omicidio si consumò alle 19.55, di fronte a un cancello di ferro, in via Mancinelli a poco più di venti metri dall’incrocio con via Casoretto. I testimoni parlarono di tre giovani sui vent’anni, due con un impermeabile chiaro, il trench, e uno con un giubbotto color nocciola. A sparare fu uno solo con una pistola calibro 7.65 tenuta dentro un sacchetto di plastica per raccogliere i bossoli. Una tecnica in uso all’estrema destra romana, come l’indossare impermeabili chiari, quasi una «divisa», secondo più di un esponente del neofascismo capitolino. Si sparò per uccidere. Otto furono i colpi esplosi. Sette andarono a segno: quattro raggiunsero Fausto Tinelli e tre Lorenzo Iannucci. Fausto morì sul colpo, Lorenzo durante il trasporto all’ospedale ( Lorenzo Iannucci venne ucciso subito mentre Fausto Tinelli morì durante il trasporto all’ospedale ) . Ambedue avevano solo diciotto anni. Un agguato in piena regola con una capacità di fuoco dello sparatore con tutta evidenza già abituato a situazioni simili. Fatto strano, i tre, dopo l’assassinio, anziché girare subito in via Casoretto fuggirono lungo via Mancinelli, dritta e lunga 350 metri, verso via Leoncavallo. Sparirono così. Forse non erano soli. Un testimone annotò la presenza di altri due giovani, all’ingresso di via Mancinelli, in una piccola rientranza, tra l’edicola e l’angolo, che invece scapparono velocemente pochi secondi dopo gli spari in direzione di via Casoretto. Complici o passanti impauriti?
Il 23 marzo, cinque giorni dopo, giunse, con un volantino fatto ritrovare in zona Prati a Roma (a soli cento metri dalla sede dell’Msi luogo d’incontro dei neofascisti di Corsi), la rivendicazione dell’«Esercito nazionale rivoluzionario-Brigata combattente Franco Anselmi». Franco Anselmi, elemento di spicco dell’area Fuan-Nar di Roma, era rimasto ucciso il 6 marzo precedente nel corso di una rapina in un’armeria, commessa insieme ai fratelli Fioravanti e altri, divenuto una sorta di simbolo per i camerati. A lui erano legatissimi i tre presunti killer.
Una presenza confermata
Sulla presenza di Mario Corsi a Milano in quei giorni si raccolsero diverse testimonianze. Lo disse un suo caro amico di Cremona, Mario Spotti, sostenendo che era passato da lui proveniente da Milano con altri due «camerati». Su questa circostanza testimoniò in tal senso anche la zia dello stesso Corsi. Ma quel che più conta fu che a casa di Spotti si sequestrassero munizioni calibro 7.65 appartenenti allo stesso lotto di quelle utilizzate nel duplice delitto (lo stesso Spotti aveva in gennaio acquistato una pistola 7.65 proprio da Anselmi) e che nell’abitazione di Corsi a Roma, in occasione di una perquisizione a seguito di una denuncia per un’aggressione nel luglio del 1979 a cocci di bottiglia nei confronti di due giovani di sinistra, fossero rinvenute due fotografie, una ritraente i volti di Fausto e Iaio e una dei loro funerali. Un ultimo dato: i Nar con Mario Corsi facevano la spola tra Roma, Milano e Cremona. Nell’aprile 1979, come confessato da Valerio Fioravanti, erano stati nuovamente a Milano (con loro Guido Zappavigna) per assassinare Andrea Bellini, ritenuto responsabile dell’uccisione di Sergio Ramelli. Un tentativo andato a vuoto.
Dal 1978 al 2000 indagarono diversi magistrati, a partire dal sostituto procuratore Armando Spataro fino al gip Clementina Forleo. Alcuni di loro non furono letteralmente messi nelle condizioni di lavorare, oberati da altre decine di istruttorie, come se la morte di Fausto e Iaio, due giovani proletari di periferia, non meritasse la considerazione dovuta.
La perizia balistica appurò che i due giovani furono uccisi con armi piuttosto vecchie, probabilmente Beretta mod. 34 con l’originaria canna cal. 9 cambiata con una canna cal.7,65, o Beretta mod.35. Armi in dotazione ai Nar sino all’inizio del 1979 quando, a seguito di rapine in armerie, furono acquisite Beretta mod.70 e altre armi più moderne ed efficienti. Una perizia del 1999, condotta dal professor Aldo Giannuli, su incarico del sostituto procuratore Stefano Dambruoso, rivelò che il fascicolo «F1/A–Milano 18 marzo 1978», presente nell’archivio della Direzione centrale della Polizia di prevenzione, fosse «eccezionalmente povero», senza «una sola nota confidenziale», assenza «quanto mai insolita», concludendo per un atteggiamento di «complessiva reticenza» da parte della polizia che in alcun modo aveva «attivato la rete dei suoi informatori», scoraggiando anche «l’eventuale invio di notizie in merito». Un’ipotesi inquietante. Si arrivò così al 6 dicembre 2000 con la decisione del gip Clementina Forleo di archiviare il procedimento «Pur in presenza di significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva e in particolare degli attuali indagati».
All’ombra di Moro
All’atto di archiviazione, pochi giorni dopo, rispose sui giornali Umberto Gay, consigliere regionale di Rifondazione comunista. «Mario Corsi è l’assassino di Fausto e Iaio – disse – fu lui a sparare il 18 marzo 1978 in via Mancinelli con gli altri fascisti. È tutto nelle carte La decisione del tribunale è un’onta indelebile per tutta la città». Il non aver voluto celebrare un processo, seppur su base indiziaria, resta, in effetti, ancor oggi non pienamente comprensibile. Mario Corsi, dal canto suo, minacciò querele che mai fece, come nei confronti di tutti coloro che rilanciarono le accuse. Troppi, con ogni evidenza, i rischi. Il fascicolo dorme ora nei cassetti della procura di Milano. Massimo Carminati è attualmente in carcere per «Mafia-Capitale», Claudio Bracci è stato condannato per rapine e banda armata, mentre Mario Corsi, dopo essere stato assolto per l’omicidio a Roma del giovane di sinistra Ivo Zini, anche lui assassinato nel 1978, ha intrapreso una fortunata carriera radiofonica come conduttore sportivo in radio private.
Sul movente dell’uccisione di Fausto e Iaio sono state avanzate più ipotesi, anche quella di una vendetta della malavita legata allo spaccio d’eroina, dopo la pubblicazione di un dossier a cui i due avevano lavorato. Ma forse la verità va ricercata altrove, nel contesto seguito al rapimento da parte delle «Brigate rosse» di Aldo Moro, solo due giorni prima. Assassinare in modo efferato due giovani di sinistra avrebbe potuto scatenare reazioni violente. Una provocazione, un calcolo cinico, un’«operazione» su scala nazionale. Chi meglio di una banda di fascisti legati ai servizi e alla Banda della Magliana avrebbe potuto farlo?
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